La mattina del 24 maggio 1954 a bordo di una lancetta lunga tre metri nella rada di Portofino giunsero esausti sette uomini. Era l’equipaggio della motonave Silverio del compartimento marittimo di Napoli che dislocava 793 tonnellate di stazza lorda. La San Silverio dell’armatore Nicola Cacioppoli di Capri aveva dodici uomini di equipaggio. Sette di essi, il capitano Giuseppe di Ponza, il nostromo Domenico Santolo, i motoristi Antonio Castagna e Vincenzo Aprea, il cuoco Angelo Vitiello ed il mozzo ventenne Franco Jodice tutti di Ponza, si salvarono in circostanze drammatiche. I corpi dei rimanenti cinque, Alessandro e Giuseppe Feola e Salvatore Vitiello furono rinvenuti in mare durante le affannose ricerche. Una quarta salma, recuperata a sera, apparteneva al marinaio Pasquale Sorrentino di 22 anni di Portici. Risultò disperso il capo macchinista ventiquattrenne Italo Vital di Venezia.
La piccola lancia, al cui interno si erano ammucchiati ormai semi-assiderati i sette scampati, entrò nel piccolo golfo di Portofino lentamente, sospinta dal vento a “fil di ruota”, che l’investiva da poppa. Qualcuno gemeva. La barca era un ammasso di corpi che si stringevano l’uno all’altro, nel tentativo istintivo di proteggersi dal freddo. Dalle prime narrazioni degli scampati fu possibile ricostruire il sinistro che portò alla perdita di una nave a così poche miglia da Genova.
La mezzanotte era scoccata da pochi minuti. Il mare, sollevato da un forte vento di mezzogiorno, si accanì contro il San Silverio, che navigava al largo di Camogli per 328 gradi, alla volta di Savona. Improvvisamente, una serie di colpi di mare, culminata con due cavalloni di eccezionale violenza investì la piccola motonave che, abbattutasi verso sinistra, non fu più in grado di risollevarsi. Tentare di far raccontare agli scampati come si svolse l’affondamento e come essi abbiano potuto gettarsi in mare è ben difficile. In certi momenti le facoltà percettive e le possibilità mnemoniche vengono annullate: Vitiello raccontò che la nave scoppiò con un boato terribile. Si trovarono in nove sulla lancetta di tre metri, calata in mare come ripiego dal cuoco e dal motorista.
Il comandante, soltanto dopo che constatò l’inutilità – o meglio l’impossibilità – di salvare qualcosa, si lasciò trascinare dagli uomini in salvo. Ma rimanere in nove su quel guscio era impossibile. La piccola imbarcazione era anche piena a metà d’acqua; perché solo dopo averla calata in mare, i marinai si accorsero che mancava il tappo. Vitiello si strappò allora la manica della camicia e con questa, convulsamente, ostruì il foro dal quale entrava l’acqua con un gorgoglio minaccioso. A poca distanza si distingueva la lancia di salvataggio di sinistra, quella che era stata calata e che era stata danneggiata da un colpo di mare. Le sue condizioni non erano però allarmanti, le casse d’aria conferivano al natante una certa sicurezza, nonostante le sconnessioni tra le tavole di fondo. Su questa lancia, sulla quale si trovavano già i due Feola ed il capomacchinista Vital vennero trasbordati anche Salvatore Vitiello e Pasquale Sorrentino. Fu allora, o poco dopo, che un piroscafo passò a mille metri sottovento ai naufraghi, vale a dire fra le loro imbarcazioni e la costa. “Se avessimo avuto un fiammifero da accendere – ha detto Angelo Vitiello – ci avrebbero senz’altro visti”.
Era trascorsa solo mezz’ora dall’approdo dei naufraghi che già due imbarcazioni scioglievano gli ormeggi per le ricerche degli altri scomparsi. Toccò al “Dinda” concludere le ricerche e togliere le speranze a quanti attendevano in ansia sulla banchina del porto a Santa Margherita. Quando il motopeschereccio supero la diga e si avvicinò al molo ognuno, guardando il tricolore che sventolava mestamente a mezz’asta, comprese. Tre uomini erano stati raccolti in mare, tre marinai. Tre salme erano distese sul ponte del “Dinda“, a poppa, coperte da un telone inzuppato di pioggia. Navigando a 15 miglia a sud della punta di Portofino, alle 13, gli uomini del motopeschereccio avvistarono una lancia semiaffondata e capovolta.
Poco dopo imbatterono in due barili che si dondolavano sulla sommità delle onde del mare assai mosso. In un punto, era quasi un’isola tra i marosi, una macchia d’olio. Da bordo del “Dinda” i marinai aguzzarono gli occhi fino allo spasimo. Ed ecco un thermos, il codice dei segnali e, infine, alle 13,15, il corpo di un uomo. Sembrava ancora vivo. I marinai Io distesero e cercarono di riscaldarlo, gli praticarono la respirazione artificiale, lo massaggiarono. Ma il corpo rimase senza vita. Quindici minuti dopo ne venne raccolto un altro e, alle 14,30, l’ultimo. Erano morti. “Morti da poco” hanno riferito alla folla muta che attendeva sul molo. E qualcuno piangeva. Le salme appartenevano ai marinai Alessandro e Cilusi Feola e al “giovanotto” Salvatore Vitiello di 23 anni, tutti e tre di Ponza. Grazie a Emilio Carta.
Motonave di 793 tonnellate di stazza lorda.
Data affondamento il 23 Maggio 1954.
Posizione: Sconosciuta (al largo del promontorio di Portofino).
Portofino, un Mondo a parte.